Come mai si parla tanto di Open Innovation? E perché sempre più aziende scelgono di adeguarvisi? Vediamo insieme di che cosa si tratta.
Che cos’è l’Open Innovation?
È stato Henry Chesbrough, economista statunitense, a coniare per primo il termine. In un libro intitolato “Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology”, pubblicato nel 2003 dalla Harvard Business School Press, il termine salta fuori come qualcosa destinato a far parlare di sé.
Ponendo il termine a confronto con la cosiddetta “closed innovation”, l’economista lamentò come la ricerca compiuta all’interno dei confini delle singole imprese non potesse più bastare per farle crescere. Fino a tempi recenti, infatti, le imprese si erano dette scettiche all’idea di estendere il campo di ricerca al di fuori del perimetro rigido che le definiva. Il pensiero che le loro invenzioni fossero prese e rubate da altri le frenava.
Eppure l’Open Innovation è una grande, grandissima opportunità per le aziende, a prescindere dalla loro grandezza o operatività. Non si riescono a contare i numeri delle compagnie che hanno saputo reinventarsi grazie alle idee nate da dipendenti, startup, ricercatori e collaboratori vari.
Con lo sviluppo della rete conoscenze e competenze hanno potuto diffondersi a una velocità esemplarmente maggiore. Il mercato ha intuito ciò che sta succedendo e ha preso a concentrarsi su aziende fondate su modelli di business nuovi, disruptive rispetto alla tradizione.
La trasformazione digitale, in questo senso, è fondamentale per permettere alle imprese di evolversi e snellire la propria struttura.
Open Innovation: il panorama italiano è ancora limitato
Stando a Il Sole 24 Ore, il numero di imprese che adotta progetti di open innovation in maniera costante si limita a una misera percentuale: appena 30% del totale. La maggior parte degli interlocutori non si sentono in vena di sviluppare nessun tipo di progetto. E una buona fetta di questi non conosce neppure di che cosa si stia parlando.
Non mancano realtà che investono in progetti di Open Innovation. Dal 2015 a oggi, spiega Layla Pavone, chief innovation marketing and communication officer di Digital Magics, sono stati approvati oltre 20 progetti che hanno coinvolto più di 600 realtà innovative. Le parole d’ordine del contesto: adtech, foodtech, insurtech.
Open Innovation: il caso Siemens
Un paio di realtà in cui la Open Innovation è di casa sono Siemes e Vibram.
Il colosso tedesco ha lanciato Quickstarter, contest che promuove la creazione di idee tra dipendenti. I progetti vengono scelti e selezionati da loro, invece che dal management. Chiunque ritenga di avere una buona idea ha un tempo limite di 4 settimane per parlarne sulla piattaforma online.
Una realtà tutta italiana: Vibram
Vibram, dal canto suo, ha riscosso successo per via delle svariate collaborazioni che ha intrapreso con partner esterni. L’azienda produce suole di gomma per calzature da arrampicata in montagna. La collaborazione con startup e talenti provenienti da mercati stranieri è il punto di forza della società italiana. Pensiamo alla partnership stretta con l’azienda americana InStep NanoPower, che ha portato alla creazione di Hero System. Questo dispositivo, pensato per le suole prodotte da Vibram, trasforma l’energia prodotta dal movimento dei passi in materiale per ricaricare strumenti come un telefonino o un contapassi.